XXI JORNADAS DEL INSTITUTO LATINO AMERICANO
DE DERECHO TRIBUTARIO - ILADT 2002

Barcelona – Genova  31 De Agosto - 6 De Septiembre 2002

 

Seminario n. 4 : Globalizzazione e Giustizia Tributaria

Relazione: prof. Piera Filippi

 

Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale hanno visto il rafforzarsi dei legami economici internazionali. Solamente nell’ultimo decennio il rafforzamento di tali legami ha cominciato ad avere effetti percepibili anche nella vita di tutti i giorni. E si è fatta strada nel lessico di fine millennio questa nuova parola «globalizzazione» che indica un complesso processo che influenzando molti aspetti della nostra vita è difficilmente definibile in modo univoco, rischiando spesso di risuonare senza un preciso significato o di essere inneggiata come uno slogan, richiamando a volte idee più ampie rispetto a quelle che in essa possono essere contenute.

Non esiste un’unica definizione di globalizzazione anche perché  vengono racchiusi in tale concetto  diversi fenomeni alcuni dei quali hanno poco o nulla a che vedere con la globalizzazione, così come viene intesa dagli economisti. Tra l’altro, anche in ambito economico il termine non gode di un’unica definizione. Se, semplicemente, il fenomeno potrebbe essere definito come l’espansione delle attività economiche oltre i confini nazionali, più precisamente viene inteso come  un processo di crescente integrazione e interdipendenza economica tra i Paesi dell’economia mondiale. Un processo quindi verso una maggiore integrazione dei mercati che si sviluppa mediante flussi di beni e servizi, mobilità di capitale, di persone e di idee. Forse la più precisa è la definizione contenuta in un rapporto OCSE del 1993, nel quale la globalizzazione è stata definita come il processo «attraverso il quale mercati e produzione in differenti Paesi stanno diventando sempre più interdipendenti  grazie alla dinamica del commercio di beni e servizi ed ai flussi di capitale e tecnologia».

La globalizzazione in senso normativo viene anche utilizzata, per descrivere  una strategia di sviluppo basata su una crescente integrazione dell’economia mondiale cercando di eliminare gli ostacoli che si oppongono alla libera circolazione internazionale dei prodotti, dei servizi e dei fattori produttivi.

La globalizzazione oggi è fonte  di speranza: il maggior flusso di scambi internazionali stimola la crescita economica: questa a sua volta stimola l’occupazione ed i pagamenti salariali  e quindi comporta più alti standard di vita per i consumatori; crescenti standard di vita rafforzano la volontà della società di dedicare risorse alla protezione dell’ambiente e ad altri rilevanti obiettivi sociali. La globalizzazione tuttavia crea anche preoccupazioni in quanto i lavoratori nel mondo sviluppato si sentono minacciati dalla concorrenza  del lavoro a basso costo localizzato nel mondo più arretrato; l’opinione pubblica si preoccupa per le condizioni di lavoro di queste aree del mondo specialmente per l’impiego del lavoro minorile. C’è chi afferma che per ridurre il lavoro minorile bisogna bloccare le multinazionali, fermare la globalizzazione. Ma intanto le condizioni dei bambini sono migliorate grazie alla globalizzazione: dove si è liberalizzato il prezzo del riso, per esempio, questo è sceso in media del 33% e ciò ha consentito ai genitori di non dovere mandare i bambini a lavorare, ma di mandarli invece a scuola.  Tuttavia non si può non tenere presente la  preoccupazione che consiste nella sensazione che il mondo sviluppato si stia sempre più allontanando da quello meno sviluppato cosicché il circolo virtuoso innescato dalla globalizzazione si trasformerebbe in un circolo vizioso di crescente disuguaglianza.

Indubbiamente il processo di globalizzazione è caratterizzato da disuguaglianze economiche e politiche tra i Paesi del mondo. Infatti «con l’accrescimento della ricchezza si sono aggravate le disuguaglianze distributive. Alcuni Paesi non riescono a partecipare ai benefici concessi con l’espansione degli scambi; l’insorgere di crisi internazionali finisce per colpire  i Paesi più deboli; gli squilibri nei rapporti di forza tra Paesi ricchi e Paesi poveri sono appesantiti da politiche protezionistiche».[1] La riforma commerciale può invero svolgere un ruolo positivo nella riduzione del divario fra i Paesi ricchi ed i Paesi poveri alla condizione tuttavia che sia uno degli elementi di una strategia di uno sviluppo di  più ampio respiro. E i cambiamenti che si sono avuti in questi anni sia sul piano dei contenuti sia su quello delle procedure  sono stati notevoli.

L’ampio scenario che si presenta fa sentire la necessità di interventi sopranazionali. In questo senso si stanno movendo particolarmente l’Unione Europea e l’OECD, ma altri organismi dalle Nazioni Unite al G8,  alla WTO, al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo ed il Banco Interamericano de Desarollo.

E in un mondo in cui molte o quasi tutte le istituzioni internazionali (con la eccezione delle Nazioni Unite) sono contestate in nome della democrazia globale anche il G8 (che era all’inizio un G5) concepito principalmente con l’obiettivo di contrastare le ondate di instabilità monetaria seguite al crollo degli accordi di  Bretton Woods nel 1971, ha mutato i metodi di lavoro.

E, per rafforzare la sua legittimazione a conservare la sua utilità, dovrà in primo luogo aprirsi ancora di più all’esterno tramite un processo di consultazioni che coinvolga i Governi, il settore privato e le ONG (organizzazioni non governative). E’ necessario pertanto un impegno per estendere il campo del Governo del diritto su scala globale, ampliando e rafforzando la rete esistente di regole ed istituzioni internazionali.[2]

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Il processo di globalizzazione dei mercati e di internazionalizzazione dei sistemi economici produttivi che caratterizza questo periodo genera nuove sfide e apre inedite prospettive non solamente nei confronti delle imprese private rivolte verso mercati internazionali, ma anche con riferimento ai differenti sistemi economici nazionali e sopranazionali coinvolti in concorrenza reciproca. I mercati sono infatti inondati di prodotti provenienti da ogni parte del mondo. Lo stesso Fondo Monetario internazionale sottolinea la necessità di introdurre regole anche fiscali perché «la globalizzazione» crea preoccupazioni per la riduzione del gettito per effetto della concorrenza delle legislazioni di favore atte ad attrarre la collocazione delle attività produttive. In un mondo globalizzato, il sistema fiscale di un Paese deve essere, quanto più possibile omogeneo ai sistemi fiscali degli altri Paesi. Anche a tal fine sono state avviate da parte dei maggiori Paesi industrializzati iniziative per la cancellazione dei debiti nei confronti dei Paesi più poveri (l’Italia partecipa a tale programma ed ha approvato la cancellazione di debiti per 6 miliardi di dollari). Tale cancellazione permetterà ai paesi più poveri di rientrare nel circuito del commercio internazionale contribuendo in tal modo ad una più elevata ed equilibrata crescita dell’economia mondiale.

Inoltre una delle proposte più concrete formulate è stata quella della  c.d. Tobin Tax, suggerita come forma di tassazione delle transazioni finanziarie internazionali e come contromisura per scoraggiare le manovre speculative. La Tobin Tax tuttavia ha riscontrato subito alcune critiche a causa di problemi derivanti dalla sua struttura. E pertanto sono state introdotte varianti alla proposta base quali, ad esempio, una struttura impositiva su due livelli corrispondenti a due diverse aliquote, una  più bassa per le transazioni ordinarie ed una più elevata per quelle operazioni a breve termine aventi conseguenze prettamente speculative sulle valute. La Tobin Tax, presentata al vertice G7 di Halifax nel 1995, non ha incontrato eccessivi entusiasmi, anche se il dibattito sorto intorno ad essa ha offerto spunti di interesse per la tassazione delle rendite finanziarie.  Di recente nell’ordinamento italiano, nel  disegno di delega al Governo per la riforma del sistema fiscale statale proposto (maggio 2002), sul quale si ritornerà in seguito,  la Tobin Tax è stata sostituita da una «De Tax».  La De Tax ( o «A-Tax») è l’esatto opposto della Tobin Tax: non è una tassa, ma una non – tassa, il cui ambito di applicazione non è limitato al mercato finanziario, ma esteso a tutti i consumi, sottoforma di detassazione dell’1% dei consumi liberamente destinati dai cittadini per finanziare  attività eticamente meritevoli. Si è rilevato[3] che il richiamo alla filantropia, in particolare, è alla base della proposta di introduzione di una De-Tax, in alternativa alla Tobin Tax, come mezzo per finanziare su base volontaria incentivata iniziative etiche alternative di varia natura dirette, ad esempio, alla lotta alla fame ed alle malattie ed al sostegno dello sviluppo nei Paesi poveri.

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Come è stato osservato con un’analisi ampia e approfondita[4], il processo di globalizzazione economica ha un impatto sconvolgente sulla finanza pubblica perché fa cadere il presupposto su cui sono stati fino ad oggi elaborati gli ordinamenti fiscali: quello della coincidenza tra chi fruisce della spesa pubblica ed il contribuente.

Il principio generale secondo cui il cittadino deve pagare i tributi che i rappresentanti popolari da lui eletti  imporranno per finanziare  la spesa dalla quale trarrà dei vantaggi, con la globalizzazione cambia. Ed invero il cittadino continua a votare nel Paese di appartenenza e a godere in tale Paese dei benefici della spesa pubblica, ma potrà anche scegliere il Paese meno «esoso» ove pagare almeno una parte dei tributi attraverso una opportuna localizzazione degli investimenti finanziari, delle attività produttive e della propria sede di lavoro. In estrema sintesi gli Stati nazionali perdono la sovranità tributaria su quote di imponibile e pertanto, cercando di riconquistare contribuenti esteri, diminuiscono le aliquote sulla parte «mobile» della materia imponibile (plusvalenze e rendite finanziarie, reddito d’impresa). Resta pertanto nello Stato l’imponibile offerto da fattori poco mobili: il lavoro, i consumi, le rendite immobiliari.[5] Diminuisce così la tassazione sui redditi di capitale e d’impresa ed aumenta quella sul lavoro. Si rende pertanto necessario un maggior coordinamento tra le politiche tributarie dei vari Paesi che  consenta di frenare la competizione fiscale tra Stati.

Tuttavia nell’attuale contesto di globalizzazione e di mercato unico europeo (e con un’unica moneta) sono presenti quindici diversi sistemi di tassazione dell’utile societario che danno luogo a competizione con conseguenze evidenti per il buon funzionamento dei mercati. Vi è pertanto  la necessità di un coordinamento della tassazione.

Nel sistema fiscale italiano, con la riforma tributaria del 1973 si era fatto del reddito personale il punto di riferimento e della progressività lo strumento al quale venivano affidate tutte le attese in tema di giustizia tributaria ponendosi l’attenzione all’azione esercitata da un’unica imposta. Tuttavia proprio la concentrazione in una sola imposta è stata uno dei punti deboli che ha determinato il fallimento di tale riforma[6]. Nonostante le numerose proposte e modifiche apportate successivamente al sistema fiscale italiano  - che sicuramente è mutato per quanto attiene alla neutralità del prelievo ed alla semplificazione -  tuttavia non si sono risolti i punti negativi che ancora presenta e cioè in primo luogo la pessima distribuzione del carico fiscale  - quale quello che deriva dalla discriminazione tra lavoro e capitale con effetti perversi in termini di equità orizzontale e verticale -  l’eccesso di pressione fiscale e la scarsa efficienza dell’amministrazione finanziaria.[7]

Per quanto attiene in particolare il primo di tali aspetti, vi è da osservare che, curiosamente, l’equità non ha mai avuto nel dibattito relativo all’imposizione personale ed in particolare sull’IRPEF un ruolo pari a quello dei problemi posti dall’entità e dall’evoluzione del gettito, oppure dal buon funzionamento in termini di contenimento dei fenomeni di evasione e di elusione.

Due sono i fattori che spiegano questo apparente disinteresse. Il primo è che per come l’IRPEF era nata ed era stata concepita, l’elemento di equità rilevante era solo quello di natura verticale: assolto, almeno in apparenza, dalla struttura progressiva delle aliquote e la discussione poteva eventualmente vertere sull’entità della redistribuzione verticale.

L’equità orizzontale era assorbita quasi esclusivamente dalla discriminazione qualitativa dei redditi – attuata almeno inizialmente a favore del lavoro, sebbene poi indirizzata principalmente verso il lavoro dipendente, e infine di fatto capovolta a favore del capitale – e da un sistema di detrazioni per “carichi di famiglia”, che teneva conto allo stesso tempo sia dei figli sia della discriminazione verso famiglie monoreddito, determinata dalla tassazione su base individuale.

E qui viene il secondo fattore di disinteresse: la Corte Costituzionale nel 1976 decretando l’incostituzionalità del cumulo dei redditi [8], ha posto  fine alla questione dell’equità orizzontale rendendone il perseguimento molto difficoltoso. Con quella sentenza, l’imposta, che era stata concepita con riferimento alla famiglia, viene riportata a livello individuale.

Anche sul fronte dell’equità verticale, che pure è stata perseguita in modo sistematico, l’imposta presenta e non da ora, problemi rilevanti. Due paiono invero essere i fattori problematici: in primo luogo, la base imponibile che si è nel tempo ridotta fino a comprendere essenzialmente i soli redditi da lavoro; in secondo luogo, la struttura dei redditi,che si è creata nel sistema economico, rende poco accettabile un’imposta progressiva.

Le ragioni che hanno portato a ridurre nel tempo la base imponibile dell’imposta sono molteplici. Basti ricordare, senza entrare in una ricostruzione dettagliata[9], come già al momento dell’istituzione dell’imposta erano stati esclusi gli interessi bancari e quelli obbligazionari; successivamente, la scarsa efficacia dell’integrazione con l’imposta sulle società e il cattivo funzionamento di questa hanno escluso, di fatto, buona parte dei redditi di capitale (assoggettati in genere ad imposizione sostitutiva). Specifici  redditi da lavoro autonomo sono esclusi a causa dell’evasione; negli ultimi anni con il ruolo dato all’ICI per il finanziamento dei comuni si è proceduto man mano ad escludere parte delle rendite da immobili.

In prospettiva, l’integrazione europea in termini di libertà di circolazione di mezzi e di persone necessariamente comporterà un’accentuazione della competizione fiscale su quelle basi imponibili, come il capitale, specie se finanziario, a facile mobilità.

Quindi, sia per la situazione maturata nel passato, sia per quella valevole in prospettiva, l’imposta finisce per gravare solo sui redditi da lavoro dipendente (in questi includendo le pensioni). In tali condizioni non vi sono giustificazioni convincenti per continuare a mantenere quella  progressività così accentuata.

Oltre alle ragioni indicate, la limitazione della progressività, trova nella questione dell’equità orizzontale un ulteriore sostegno: la sua riduzione può limitare in modo significativo, fin quasi ad annullare in pratica, la discriminazione sulle famiglie monoreddito.

Con la delega per la riforma del sistema fiscale statale  (attualmente  - luglio 2002 -  in Commissione Finanze e Bilancio al Senato – atto Senato 1396), si è cercato di adeguare il sistema fiscale nazionale all’accresciuta integrazione economica e finanziaria internazionale ed alle profonde trasformazioni della struttura patrimoniale e produttiva – occupazionale al fine di perseguire obiettivi di efficienza e di equità.

Nel nuovo sistema viene riconsiderato e ridimensionato il ruolo dell’imposta personale progressiva sul reddito complessivo, partendo dalla constatazione che essa, pur non essendolo mai stata sin dall’inizio, è oggi sempre meno un’imposta sul reddito complessivo e la sua progressività si applica soltanto ad alcuni redditi da lavoro con evidenti fenomeni di elusione. Con la delega per la riforma viene allargata la base imponibile su cui insiste la progressività, in coerenza con lo standard europeo, includendovi componenti di reddito (dividendi e «capital gains» qualificati). L’imposizione tuttavia resta progressiva per tre ragioni: per effetto dell’abbattimento alla base prodotto dalla previsione di una «vasta» «no tax area», per effetto della concentrazione delle deduzioni (e non più detrazioni) sui redditi bassi e medi; per effetto dell’aliquota, marginale e limite, del 33 % per la fascia di reddito superiore a un determinato ammontare (oltre i 100.000 euro). Sui redditi bassi e medi, la progressività delle aliquote è sostanzialmente integrata dalla progressività delle deduzioni, mentre per i redditi superiori a tale importo si applica l’aliquota superiore del 33 % e vi è la totale assenza di deduzioni.

L’effetto della globalizzazione sui sistemi fiscali comincia a manifestarsi: alcuni Paesi hanno ridotto le imposte (Irlanda, Spagna, Olanda, Svezia) in quanto ci si è resi conto che nel futuro sarebbe difficile mantenere la pressione fiscale attuale;si è quindi dato inizio a «cambiamenti per rendere il sistema fiscale più adatto alla nuova realtà internazionale».[10]

Ed invero la globalizzazione crea i cosiddetti «tarli fiscali» che erodono la raccolta delle imposte ed impongono quella riforma  del Welfare State che di per sé i sistemi politici non riescono ad attuare.

La concorrenza tra giurisdizione tributaria, il commercio elettronico, la crescente mobilità dei fattori, come i capitali e gli individui, riducono progressivamente il gettito ottenibile con i tributi ed impongono nuove considerazioni.

 

                                                                                 



[1] Dalla Lectio Magistralis  - Globalizzazione, diritto e persona del Governatore della Banca d’ Italia dott. Antonio Fazio tenuta il 21 luglio 2002 in occasione del conferimento ad honorem  del titolo di Doctor of Laws da parte della St. John’s University.

[2] G. Amato, Democrazia  e potere nel mondo globalizzato, in «La Repubblica» del 15 giugno 2002.

[3] A. Pedone, La sfida di un fisco per la crescita e la riduzione degli squilibri, in Atti del Convegno di Studi:  I centogiorni e oltre: verso una rifondazione del rapporto fisco –economia?, 2002, Roma, ETI, p. 65.

[4] F. Gallo, Sviluppo, occupazione e competitività: profili fiscali, in Rass. Trib., 1999, p. 967.

[5] F. Gallo, op.cit., p. 971

[6] Per superare la crisi dell’imposta progressiva sul reddito si è anche proposto  sulla base della riforma fiscale americana del 1986 e della sottostante teoria economica c.d. della “supply side” che la soluzione ai problemi della tassazione sul reddito potesse trovarsi in un ampliamento della base, quindi un ritorno alla generalità dell’imposta che avrebbe permesso un abbassamento delle aliquote (Cfr. J. Pechman, Comprehensive Income Taxation, The Brookings Institution, Washington, 1977. Per una discussione riferita all’Italia si vedano: V. Visco, Disfunzioni ed iniquità dell’Irpef e possibili alternative: un’analisi del funzionamento dell’imposta sul reddito in Italia nel periodo 1977-83, in (a cura di) Gerelli e Valiani, 1984, p. 156-157; G. Tremonti e G. Vitaletti, Le cento tasse degli italiani, Bologna, op. cit.  1986).

Questa linea di azione ha costituito la direzione per gli interventi legislativi negli anni Ottanta. E’ risultato subito chiaro, però, che a parte i problemi, di natura gestionale e di tecnica tributaria, posti dai tentativi di ampliamento della base, restavano intatte le difficoltà per il reddito personale a rappresentare un indicatore di capacità contributiva e quindi permanevano le obiezioni al mantenimento di significativi gradi di progressività.

L’ampliamento della base era, poi, un obiettivo per il quale si presentava subito un costo piuttosto alto: la forte interdipendenza dei sistemi economici e la relativa facilità di movimento dei capitali finanziari e, in buona misura, di quelli reali, imponevano, come poi è stato, una tassazione alleggerita delle rendite finanziarie e, in generale, dei frutti del capitale. La conseguenza è stata che per questi tipi di redditi sia l’elemento di personalizzazione, sia, quindi, la caratteristica della progressività dell’imposta hanno dovuto essere sacrificati.

L’altra tradizionale proposta per uscire dalla crisi è stata di passare ad un’imposta sulla spesa. Questo tipo di imposta, poi, implicherebbe l’introduzione di una credibile forma di tassazione patrimoniale; ma, questa, oltre a non avere un consenso proprio, sarebbe in pratica non attuabile data la libertà di circolazione dei capitali che di fatto limita notevolmente la sovranità fiscale(Indicativa è, al riguardo, la discussione sulla abolizione dell’imposta di successione)

Un’altra proposta avanzata è conseguenza di un più vasto progetto di riforma del sistema fiscale. L’idea è di porre il problema distributivo non tanto in termini di un’imposta su base annuale, ma in termini dell’intera vita lavorativa. L’effetto redistributivo può essere, in questo modo, spostato dall’imposta sul reddito e portata a carico del combinato tra imposta sul reddito e finanziamento previdenziale.

Un’ultima, forse anche per importanza, soluzione proposta è stata quella che passa per una tassazione favorevole del capitale proprio, in breve del risparmio. E’ il sistema della c.d. Dual income tax (DIT), che deve la sua fortuna, nel dibattito, all’essere stata applicata con successo in alcuni Paesi Nord-europei. La sua applicazione nei paesi Nord-europei si deve all’intento di limitare la fuoriuscita di risparmio nel momento del loro ingresso nella Comunità Europea. Per questo motivo anche per la DIT si può ripetere quanto detto per l’imposta sulla spesa; è una razionalizzazione a posteriori di una soluzione imposta da altri fattori, esterni e diversi da quelli che hanno determinato la crisi dell’imposta progressiva sul reddito.

[7] F. Gallo, op.cit..

[8] Corte Cost., 15 luglio 1976, n. 179.

[9] Per la quale rinvio a V. Visco, Disfunzioni ed iniquità dell’Irpef e possibili alternative: un’analisi del funzionamento dell’imposta sul reddito in Italia nel periodo 1977-83, in (a cura di) Gerelli e Valiani, 1984, p. 156-157.

[10] V. Tanzi, dalla Relazione tenuta all’inaugurazione dell’anno accademico 2001/2002 dell’Accademia della guardia di Finanza di Bergamo il 24 novembre 2001, in Rivista  Guardia Finanza, 2002, p. 945.